Marcello Orano, combattente e scrittore dimenticato da tutti, dimenticato al punto che di lui non si riesce a reperire una biografia, neanche con Google o Wikipedia. Tuttavia credo sia giusto ricordarlo, non solo perché era amico di mio padre: di tanto in tanto giungevano delle lettere che mio padre provvedeva a disinfettare e fumigare prima di leggerle e poi distruggeva dopo avere risposto, allora non comprendevo il motivo; non ho mai saputo quali fossero gli argomenti trattati nelle lettere.

Oltre che scrittore e sceneggiatore, è considerato un importante studioso della lingua somala, fu autore di “Elementi per lo studio della lingua somala. Grammatica, frasario, dizionario” pubblicato da Hoepli nel 1931.
Lo ricorderò con il testo di un dattiloscritto da me ritrovato non so dove e con la trascrizione di un articolo.
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Ci mancano le sigarette e i pochi pacchetti che circolano sono considerati come oro.
Qualcuno ha inventato una maniera per trattenere il fumo e aspirarlo ancora all’occorrenza, chiude ogni boccata in una bottiglia. Il vizio del tabacco ci aiuta a vivere e a scandire le ore monotone vissute qui, nel campo di prigionia.
Alcuni ufficiali si sono messi a disegnare: ho visto tratteggiare sui loro cartoni tristi capanne allineate, in bianco e nero in uno spazio senza terra e senza cielo, ho visto reticolati, torrette di guardia e muri alti fatti solo di filo spinato. Ho visto alberi, nuvole e orizzonti grigi di tristezza.
Penso che la mente umana sia capace di inventare qualsiasi stratagemma pur di evadere alla difficolta’, alla noia e anche alla nostalgia.
Abbiamo perso tutti la liberta’ e chi sorpassa quel confine ultimo e invalicabile muore, viene fucilato all’istante dalla sentinella di guardia.
Certe volte mi aiuta pensare al giorno del mio rimpatrio, sognare la liberta’ e’ un poco come viverla: allora rivedo Napoli, Mergellina, la riviera di Chiaia, Capo di Monte. Vedo le strade che ho percorso tutti i giorni nella mia infanzia in un tempo ciclico, lontano, dove veniva sempre l’autunno a scombussolare i colori con le sue mareggiate.
Qui ho conosciuto tanti uomini cosi’ diversi fra loro ed ogni tanto passo delle ore in buona compagnia.
La reclusione esaspera le nostre manie, le nostre nevrosi e ieri ho visto con i miei occhi un triste spettacolo: un ufficiale giovane con un attacco di rabbia contro se stesso: il poveretto ha sbattuto la testa contro le pareti della sua baracca con una violenza, fino a farsi male.
Abbiamo cercato di tranquillizzarlo ed alla fine ci siamo riusciti.
La vita di qui e’ peggiorata dalla monotonia del cibo: mangiamo sempre la stessa magra zuppa, sia la mattina che la sera e per gli ufficiali piu’ giovani e’ duro sopportare i crampi della fame, cerco sempre di dare loro il mio pane, e’ un’ottima zavorra per lo stomaco.
Ieri, un ufficiale appena arrivato, mi ha dato notizie del mio amico Marcello Orano, eravamo insieme in Somalia.
Lo ricordo ancora giornalista intraprendente con gli occhi chiari e sempre accesi per l’entusiasmo, stava dietro le truppe a descrivere i paesaggi e le battaglie, i bombardamenti aerei e le fantasie abissine.
Marcello era un grande studioso ed un profondo conoscitore della lingua somala, aveva pubblicato alcuni libri sulla grammatica e sulle origini della lingua somala dell’Ogaden e del Benadir.
E poi nel cassetto aveva sempre da farti vedere la sua novella: Marrabo’ che raccontava l’incidente di Ual Ual, era successo poco prima della guerra etiopica.
Era il 5 dicembre del 1934 quando ci fu uno scontro fra l’esercito abissino e le nostre forze. Avevamo un presidio ai confini fra la Somalia e l’Etiopia, a Ualual ed il posto era importante per i pozzi d’acqua.
Dal racconto di Marcello era nato un famoso film “Sentinelle di bronzo” che fu premiato a Venezia nel 1937.
Abbiamo passato tutto il pomeriggio a parlare di lui mentre nella mia mente correvano veloci le immagini della mia vita in Somalia.
Rivedevo quelle coste assolate dove i pescatori cantavano in coro le loro litanie dando un ritmo alla fatica mentre spingevano le imbarcazioni primitive sulla spiaggia.
Ripensavo ai momenti di pace quando camminavo su quelle rive ventose dove i somali pescavano. Li vedevo la mattina presto mentre si inoltravano in mare fino a quando l’acqua gli arrivava al collo e poi con un bastone uncinato catturavano i pesci.
Allora vivevo a Mogadiscio, la citta’ bianca, la pittoresca porta d’Oriente, con la sua Garesa, era un edificio massiccio e quadrato che era stato il palazzo del Sultano.
Mogadiscio era allegra, affascinante, inondata dal sole. La luce rimbalzava sulle pareti bianche delle case ed il clima era mite e le palme si muovevano al vento dell’oceano.
Dopo che i muezzin, dall’alto dei loro minareti, avevano cantato l’invito alla preghiera, all’ora del tramonto, mentre i fedeli avvolti nelle loro fute si avviavano silenziosi al luogo del dikir, noi ufficiali ci ritrovavamo spesso alla Croce del Sud, era il primo albergo della citta’ ed aveva all’interno un gradevole ristorante all’aperto.
Con Marcello parlavamo spesso dell’Italia, di letteratura e di Gabriele D’Annunzio, lo avevamo conosciuto entrambi ma in occasioni diverse.
Eravamo diventati buoni amici e con lui stavo imparando velocemente il suahili, era la lingua franca dell’Africa Equatoriale, la lingua delle carovane, dei commerci, era stata codificata dai Missionari ed era compresa da tutti gli abitanti di quella terra.
Il suahili mi era stato assai utile anche quella volta che mi ero travestito da mercante di pentole per oltrepassare il confine e prendere informazioni importanti sul nemico.
Marcello fu richiamato come ufficiale nel 1940 e lo assegnarono a Chisimaio. Mi ricordo che io stesso lo aiutai a preparare la trasformazione del lebbrosario in fortino ma poi la guerra ci divise ed io ritornai al mio posto sul Giuba.
L’ufficiale mi inizio’ a raccontare di Marcello:
“Le truppe italiane e gli ufficiali in Somalia stavano scappando dagli Inglesi ma Marcello Orano volle rimanere per portare una barca colma di rifornimenti alle vittime della lebbra che vivevano in una colonia remota. Durante questo viaggio rimase ferito in un attacco aereo e riporto’ molte ferite date dai frammenti di una bomba. Con grande dolore fisico riusci’ pero’ a raggiungere il lebbrosario di Chisimaio ed aiuto’ a bendare i malati.”
Ripensai ai fuochi martellanti della nostra artiglieria, rividi la polvere e le fiamme e vidi i miei uomini che portavano via dalle trincee i feriti sulle braccia.
Mi commossi pensando alla nostra bandiera lacera, sporca, ridotta a brandelli che aveva tanto sventolato sui caduti di questa guerra breve e sfortunata, eravamo seduti fuori e guardavamo il sole che stava tramontando dietro le tende da campo.
Povero Marcello, anche lui chissa’ che fine avra’ fatto!
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Articolo apparso sul Time Magazine 8 giugno del 1959
Marcello Orano e’ stato un autore di successo ed uno degli eroi di guerra italiani.
Proveniente da una famiglia importante nell’ambito della cultura e della politica, fu un coraggioso ufficiale coloniale in Africa, scrisse varie novelle, si sposo’ piu’ volte e divento’ musulmano.
Purtroppo nel 1941 contrasse la malattia che lo trasformo’ in paria, infatti mentre assisteva ed aiutava a bendare i malati del lebbrosario di Chisimaio, i bacilli di Hansen che provocano la lebbra entrarono nel suo corpo attraverso le ferite riportate in guerra.
La malattia pero’ gli fu diagnosticata solo nel 1949 e da allora inizio’ il suo calvario.
Nonostante fosse stato dichiarato piu’ volte “innocuo e non contagioso”, la polizia decise di applicare alla lettera una legge medievale e lo rinchiuse nel Lazzaretto Spallanzani di Roma.
Dopo alcuni mesi Marcello Orano riusci’ a fuggire in Francia con sua moglie Giulia che rimase sempre al suo fianco ma dopo sei anni di campagna contro “la piu’ vile delle umiliazioni” e “retaggio medievale di terrore verso la lebbra” anche i francesi rinchiusero Orano.
Allora Marcello Orano decise di tornare a Roma dove proprio in quel periodo un congresso internazionale aveva appena proclamato che “La lebbra era una malattia poco contagiosa e facilmente curabile e che tutte le leggi che discriminavano i lebbrosi avrebbero dovuto essere eliminate.” Era necessario quindi prendere misure per promuovere una conoscenza allargata della vera natura della lebbra e rimuovere tutti i pregiudizi e le superstizioni legate alla malattia.
Sull’ondata di quel congresso a Roma fu organizzata una cerimonia per accogliere Marcello Orano come un eroe.
Gli furono regalati un televisore, dei libri e dei soldi e gli fu promesso un trattamento speciale nel Lazzaretto.
E pur avendo ricevuto un trattamento intensivo in Francia con medicinali a base di “sulfone”, il coraggioso e possente uomo era diventato debole, sfigurato e gli occhi blu che tanto avevano brillato in Africa erano diventati opachi ed annebbiati.
Anche le promesse fatte a seguito del congresso purtroppo non furono mai mantenute ed i burocrati romani continuarono ad applicare quella legge antiquata.
Permisero sempre alla fedele moglie Giulia di vivere con lui, (era l’unico lebbroso in quel lazzaretto), abitavano in una casa isolata e gli furono offerte poche cure.
Una volta riusci’ a scappare da quel luogo e protestare in pubblico con addosso un cartello ma anche quello sforzo fu vano.
Ancora una volta i suoi amici gli rimasero lontani ed i pochi che volevano andarlo a trovare venivano puntualmente respinti.
La scorsa settimana, stremata dalla sofferenza, Giulia Orano ha implorato la stampa romana di aiutare lei e suo marito ad uscire dal “terrore e dalla disperazione, dal degrado, dal disordine e dalla sporcizia.”
Solo il giornale comunista L’Unita’ gli ha dato a malincuore un po’ di spazio. In Italia ci sono oggi 300 vittime della lebbra, sono confinate ed in cura, ma si stima che piu’ di 2000 preferiscono nascondersi ed evitare le cure per non fare la stessa fine di Marcello Orano.
Sono gia’passati tre anni dalle dichiarazioni del congresso del 1956 e la legge italiana non e’ stata ancora aggiornata.
Fra le raccomandazioni del congresso c’era quella di abolire l’uso della parola lebbroso dai connotati negativi anche di carattere morale e di sostituirla con la parola “vittima della lebbra” o “paziente in cura da lebbra”.
Ma la realta’ italiana non ha cambiato ne’ parole ne’ fatti: Marcello Orano, eroe di guerra del 1941, nel 1959 non e’ altro che un lebbroso.