Connotazione sociale del regime fascista

Il regime fascista partiva da un’ideologia con forte connotazione sociale, che in pratica fu realizzata solo in parte. Tale connotazione fu teorizzata con il concetto di “economia corporativa”, peraltro non ben definito: in particolare non fu mai completamente definito il concetto di “corporazione”.

Essa avrebbe dovuto essere la base di un ordine economico nuovo e non un semplice ordinamento giuridico, nel quale le imprese fossero responsabili dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato. La proprietà privata sarebbe stata comunque mantenuta, ma considerata “un privilegio che deve essere giustificato ad ogni generazione, giustificando pertanto il proprio titolo con il lavoro ed assolvendo in tale modo la propria funzione nazionale”.

L’idea era pertanto quella di un economia sostanzialmente pianificata, in cui la programmazione economica sarebbe stata affidata al Ministero delle Corporazioni, con un limite sociale all’iniziativa privata ed un controllo ed eventuale intervento dello stato sull’economia e sulla produzione.

L’impostazione data da Bottai (1934) prevedeva tuttavia che la corporazione si limitasse ad essere uno strumento giuridico volto a regolare i rapporti di lavoro, integrando le rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro (sindacato verticale).

L’atteggiamento di Mussolini, d’altra parte, era centrato sulla la difesa della proprietà privata in agricoltura e sull’intervento dello Stato nell’economia (di fatto realizzato con la costituzione di IRI, IMI, etc.). La proprietà privata non era in discussione e l’ iniziativa privata era rispettata, ma l’esercizio del diritto di proprietà “non poteva prescindere dagli interessi di natura generale”.

All’estremo opposto, Ugo Spirito prevedeva il passaggio della proprietà dagli azionisti ai lavoratori, che sarebbero pertanto divenuti proprietari, tramite le corporazioni, pro quota in conformità ai gradi gerarchici, compreso l’imprenditore che sarebbe stato posto al massimo livello della gerarchia.

Di fatto l’industria era disposta ad accettare l’intervento dello Stato, in precedenza concepito come regolatore dell’economia, fino alla forma della “disciplina e controllo” (anche se collo obtorto) ma non sotto forma di gestione.

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