Di tanto in tanto viene presentata l’idea di riportare in Italia le riserve auree nazionali, iniziativa lodevole dal punto di vista ideologico ma scarsamente rilevante per l’economia.
A parte il fatto che, a partire dal 1971, la moneta non ha più alcun legame con l’oro, le riserve auree dell’Italia ammontano a 2.452 tonnellate (fonte: Banca d’Italia – https://www.bancaditalia.it/compiti/riserve-portafoglio-rischi/index.html): considerando una quotazione, arrotondata per eccesso, di 50 €/g si ha un valore di 122.600 M€, da confrontare con un PIL di circa 1.950.000 M€, si ottiene che il valore delle riserve auree è pari al 6.3% del PIL circa.
Il confronto più interessante tuttavia è quello con la base monetaria, in particolare con il valore M3 che esprime la liquidità totale del sistema. Poiché siamo parte del sistema monetario dell’euro, la base monetaria totale risulta pari a circa 9.900.000 M€ (fonte: https://www.bancaditalia.it/compiti/riserve-portafoglio-rischi/index.html).
Il PIL dell’intera area dell’euro vale circa 14.900.000 M€ (fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_per_PIL_(nominale), con un semplice ragionamento di proporzionalità si può affermare, sia pure con una certa approssimazione, che la quota di base monetaria che competa all’Italia sia più o meno 1.300.000 M€.
Le riserve auree, ovunque esse si trovino, garantiscono pertanto, più o meno, il 9% della base monetaria.
Il problema dell’economia italiana, come peraltro di tutte le economie mondiali, non è quello di ritornare alla parità aurea come a suo tempo aveva sostenuto, pur con una notevole cognizione di causa, Jacques Rueff, piuttosto quello di trovare una nuova definizione della moneta.
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