Meritocrazia

L’articolo che riporto qui sotto, pubblicato in data 14 febbraio 2022, ipotizza un rapporto fra meritocrazia e calvinismo nella versione che potremmo definire radicale. interessante notare come diversi studiosi (mi limito a citare Donoso Cortés e Léo Moulin, ma potremmo considerare anche Max Weber) abbiano collegato le ideologie politiche del XIX e XX secolo alle eresie del cristianesimo. Ritengo che l’argomentoi sia meritevole di maggiore approfondimento.

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Il libro di Michael Sandel La tirannia del merito, oggi in edicola con il «Corriere della Sera», è un saggio filosoficamente accurato, politicamente acuto, culturalmente necessario. È innanzitutto un testo che sottopone a rigorosa analisi filosofica il tema del merito, tanto nei suoi aspetti concettuali quando nei suoi collegamenti con la storia delle idee. È poi un lavoro capace di sviluppare un potente affresco delle conseguenze dispotiche che derivano dalla combinazione di alcuni tratti caratterizzanti l’idea di merito con il milieu sociale nel quale tale idea si è radicata. È infine una riflessione che segnala al lettore il lato oscuro del merito sul piano culturale, nel momento in cui, diventando il mantra della società democratica contemporanea, finisce per prosciugarne l’ethos e convertirla in un’oligarchia da tempi moderni, la cosiddetta meritocrazia.

Il filosofo Michael J. Sandel (1953)Nessuno ovviamente vorrebbe vivere in una società in cui i meriti non fossero riconosciuti, né Sandel intende negare che proprio l’idea di merito ha definito il passaggio dalle società di Ancien Régime alle società democratiche, in cui non è più il lignaggio, ma la competenza, a orientare i percorsi individuali, consentendo potenzialmente a tutti di dare prova delle proprie capacità e di farsi largo nel mondo. È il suo abuso, la tirannia che gli lasciamo esercitare, a fare problema.

Per capire come si sia arrivati fino a questo punto, secondo Sandel occorre risalire a una querelle di natura teologica: ci si salva per le opere individuali o per la Grazia divina?

La copertina del libro È noto come la Riforma protestante abbia spostato l’accento sulla seconda, ma è pure accaduto che la sua versione calvinista, facendo del successo mondano un indicatore delle probabilità di salvezza, abbia aperto la strada a una visione delle vicende umane in cui tutto o quasi si riduce alla responsabilità individuale e all’impegno che ciascuno mette nel fare le cose, e quindi, in definitiva, ai meriti e ai demeriti che ne possono derivare.

Nell’orizzonte culturale americano, questa idea ha attecchito in una variante provvidenzialista estrema, alimentando una retorica dell’ascesa (sociale) che ha radicato la convinzione che, se si lavora duramente, si riuscirà a emergere (e, per converso, se non ce la si fa, è perché non si è fatto abbastanza e non si è meritata alcuna ascesa).

Peccato che i dati sulla mobilità sociale, che Sandel presenta e discute, non confortino affatto questo punto di vista: pochi dei bambini che nascono al fondo della piramide sociale riescono a compiere quel balzo in avanti che li porta a essere, da adulti, parte della classe dirigente, e oggi questo accade ancora meno che nella seconda metà del XX secolo.

Non basta, insomma, la buona volontà dei singoli, l’impegno appunto, quando le ingiustizie strutturali sono così sedimentate da rendere irrimediabilmente iniqua la competizione per il successo; anzi, giudicare gli esiti di tale competizione attraverso le categorie del meritare e del non meritare fa un cattivo servizio a una corretta valutazione delle reali capacità dei singoli e alla comprensione delle cause delle diseguaglianze economiche e sociali.

Il merito non è però, secondo Sandel, soltanto un ideale che non trova una realizzazione concreta all’altezza delle sue promesse, vittima della difficoltà di tradurlo in pratica: possiede anche dei limiti intrinseci, nel momento stesso in cui elude la questione per cui non possono certamente essere meritati, perché non sono oggetto di scelta, i talenti con i quali si nasce e il contesto familiare e sociale in cui si cresce — quel che un altro filosofo americano, John Rawls, aveva efficacemente definito come la lotteria naturale e la lotteria sociale. E questo è tanto più necessario rimarcarlo quanto più il merito diventa un determinante culturale, che orienta le scelte pubbliche e private, saldandosi con quel che l’autore chiama il «credenzialismo», ovvero la prospettiva per cui attraverso credenziali, prevalentemente accademiche, siamo in grado di certificare il valore delle persone.

Una prospettiva siffatta innesca tra l’altro una competizione senza requie, in cui sin da bambini si è educati a un sistema di acquisizione continua di «meriti» che si possono poi spendere nell’accesso alle università più prestigiose e, tramite queste, ai lavori più remunerativi. Col duplice perverso effetto da un lato di generare un deprecabile sentimento di superiorità in chi, grazie a vantaggi familiari e sociali, vince nella competizione, dall’altro di gettare stigma su chi in quella competizione perde perché è sin dall’inizio escluso, così generando in queste persone rancore e risentimento verso le élite, e rinforzando la tempesta populista e le sue derive antidemocratiche.

La tirannia del merito è sicuramente un libro molto americano, per come sviluppa i temi e per la temperie culturale che analizza e che prova a mettere in discussione. Ma se è vero che considera e approfondisce aspetti della vita sociale e politica che, nella vecchia Europa, ancora non si sono manifestati, perlomeno in tutta la loro virulenza, rimane però un libro che parla anche a noi europei; e non solo per la solita storia per cui quel che accade al di là dell’Atlantico presto o tardi si affermerà anche al di qua, ma anche e soprattutto perché comprendere a livello teorico certe dinamiche più profonde delle società meritocratiche già oggi può aiutarci a isolare uno degli elementi che rinfocolano il populismo, cioè l’arroganza delle élite, e allo stesso tempo metterci in guardia da un deprecabile e pericoloso esito possibile per le nostre comunità, vale a dire una divisione netta e radicale in vincitori e vinti.

Se il liberalismo storicamente nacque come proposta alternativa all’assolutismo e come nemico della tirannide, questo libro di Michael Sandel è un testo genuinamente liberale, solo che si riconosca che il merito può essere tiranno e debba perciò essere soggetto a un qualche tipo di limite, perlomeno se intendiamo avere assetti politico-sociali nei quali valga la pena vivere.

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