Il 1° marzo 1896, l’armata italiana d’Africa con 16000 uomini, di cui 12000 “nazionali” e 4000 “indigeni”, secondo la terminologia dell’epoca, al comando del gen. Baratieri, furono sconfitti da oltre 100.000 etiopici comandati da Menelik, re dei Re d’Etiopia.
A distanza di centoventi anni, giova qualche riflessione sull’argomento, prendendo spunto dall’ottimo libro di Domenico Quirico (Adua, Mondadori 2004).
Adua, insieme a Custoza e Lissa (1866), ha avuto un pesante influsso sulla storia successiva, alimentando quella scarsa fiducia in noi stessi e quell’autodenigrazione che ancora ci perseguitano. La Gran Bretagna, in India ed in Africa Meridionale, affrontò disfatte e problemi ben più grandi, ma seppe superarli. In Italia dopo Adua si rischiò una rivoluzione, la gente per le strada gridava “viva Menelik” colta quasi da un furore auto-distruttivo, Re Umberto pensò di abdicare.
Si era verificato il crollo del così detto “fronte interno”, che invece resse bene dopo la ben più grave sconfitta nota come battaglia di Caporetto (1917).
Certo, l’evento fu una sconfitta come ne capitano in tutte le guerre, tuttavia l’esercito etiopico, ancorché vincitore, ne uscì distrutto.
L’armata italiana si batté bene, in particolare nella sua componente indigena: persero la vita 260 ufficiali (metà degli effettivi), 3892 soldati e 2000 furono fatti prigionieri. Non sono note le perdite etiopiche, certamente molto superiori.
Quali furono le cause della disfatta?
- Insufficiente conoscenza del terreno, dovuta a colpa dei comandi e dello stato maggiore perché le mappe esistevano, bastava cercarle.
- Insufficiente logistica.
- Scarsa coesione e rivalità fra i generali, ed in particolare incompetenza e sembra cattivo stato di salute del comandante, aggravate dall’interferenza dei politici e da incomprensibili manovre relative alla sostituzione del Baratieri.
- Cinque generali (Baratieri, Arimondi, Albertone, Dabormida, Ellena – di cui due morirono sul campo ed uno fu preso prigioniero) per 16000 soldati sono troppi.
- Sottovalutazione del nemico: avevamo di fronte non bande di selvaggi, come fu più volte detto, ma un esercito che, sebbene reclutato con criteri feudali, era grande e ben armato, con un numero di cannoni pari al nostro e con fucili in buona parte più moderni, forniti dalla Francia ed in minor misura dalla Russia che volevano indebolire l’Italia e, tramite essa, indebolire la Triplice Alleanza.
Dopo la battaglia, il gen. Baratieri fu processato: la sentenza ne deplorò l’operato ma dichiarò il non luogo a procedere, d’altra parte l’incompetenza non è un reato e le colpe dovevano essere ricercate più che altro fra i politici.
Il governo dovette dimettersi: Crispi nella vicenda aveva molte colpe ed è giusto che sia uscito di scena, anche se si deve riconoscere che, nel bene e nel male, è stato uno dei pochi governanti dell’Italia del XIX secolo ad avere la stoffa dello statista. Non è giusto, tuttavia, che abbia trascorso gli ultimi anni tormentato da mandati di comparizioni ed interrogatori per eventi ormai superati, che i suoi avversari provvidero diligentemente a rispolverare.
Finite le guerre, almeno per il momento, è rimasto fino ad oggi il nostro istinto autodenigratorio, che si ripresenta ad esempio nei nostri rapporti con l’Europa e non solo.
Qualcuno fra coloro che leggono forse ricorderà la prestazione della nostra nazionale di calcio ai mondiali del 1970, in Messico, che ancora avevano il nome di “coppa Rimet”: un’ottima partita con la Germania, poi la sconfitta con il Brasile, fummo secondi dopo venti anni di risultati scadenti. Ebbene, al loro rientro, pensate che abbiano avuto un applauso? No, insulti e fischi.